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Immensamente, Sylvia: il mito letterario di Sylvia Plath nell’esperienza romanzesca dei Diari

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Leggendo i Diari si ha la sensazione che con essi Sylvia Plath abbia voluto scrivere il romanzo della sua vita. È forte in lei la tendenza all’autoanalisi, alla letteraturizzazione di fatti, persone, oggetti e di un’esistenza che diventa in queste pagine stanza degli specchi dove Plath continuamente si guarda, si scruta, si vede. Come in un circo degli orrori emerge dallo sfondo una personalità complessa, distopica, inquietante e oscura. Il fantasma Sylvia che risorge dalla morte in cerca di purificazione, la divina Sylvia che risorge dalle ceneri di fenice.

Ma, almeno, più in basso precipito, più in fretta toccherò il fondo e comincerò a risalire. [1]

Per quanto fortemente lacunosi e oggetto di tagli e interventi notevoli, i Diari ci regalano la Plath più vera e autentica, libera dai filtri e dalle maschere che inevitabilmente adoperava nella scrittura ordinaria. Al contrario di quello che si potrebbe pensare di una produzione che raccoglie pensieri, aneddoti, progetti di scrittura e quant’altro, i Diari, in accordo con la personalità che li ha scritti, sono un’opera estremamente variegata e complessa che si presta ad altrettante variegate e complesse letture. Una di queste, e quella che qui propongo, è la lettura romanzesca. La vita e l’apologia dell’eroina Sylvia che affascina e terrorizza attirando il lettore nella rete delle sue parole che delinea di pagina in pagina i contorni di un’esperienza di lettura, che erge Plath a icona e culto.

Il destino è nel carattere; accidenti, farei meglio a lavorare sul carattere. Mi ero rifugiata nel torpore: è una cosa tanto più sicura non sentire, non lasciarsi sfiorare dal mondo.[2]

E forse era proprio questo che Sylvia voleva. Essere dio immortale che muore e rinasce ed eternamente vive nella sua scrittura. Forse è per questo che la sua opera era oggetto di continue e ossessive revisioni e rielaborazioni, di cui Plath si mostrava quasi mai contenta e soddisfatta.

Leggi un racconto: Pensa. Ne sei capace. Soprattutto, non devi fuggire nel sonno – dimenticare i dettagli – ignorare i problemi – costruire barriere fra te e il mondo […] Signore, signore, signore: dove sei? Ti voglio, ho bisogno di te: di credere in te e nell’umanità. Non devi nasconderti in questo modo. Devi pensare.[3]

Allora cercherò di abituarmi a fare ogni giorno esercizi poetici con l’idea che non-me-ne-frega-un-accidenti-se-non-mi-pubblicano. Ecco il mio problema. Adesso mi è chiaro: colmare il vuoto tra un’adolescente brillante pubblicata e morta a 20 anni e un’adulta matura, potenziale talento, che inizia a scrivere intorno ai 25.[4]

Emerge inoltre l’incessante terrore di essere rifiutata dalle case editrici e dalle riviste a cui Plath inviava le sue opere, che la lacerava e angosciava, dando voce a quello che lei spesso chiama “ il demone”.

E giacevo sotto il flusso negativo del rifiuto, a pensare che quella voce era solo mia, parte di me, e che stava cercando di possedermi per poi abbandonarmi in preda alle mie visioni peggiori: avevo avuto la possibilità di combatterla e vincerla giorno per giorno, ma avevo fallito.[5]

Io ho questo demone che vorrebbe vedermi scappare urlando come se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario, io sono qualcosa: una persona che si stanca, che deve combattere la timidezza, che ha moltissimi problemi nell’affrontare il prossimo con disinvoltura. Se supererò quest’anno, ricacciando il demone a calci quando spunta fuori […] sarò in grado di guadagnare un centimetro alla volta nella vita, invece di scappare a gambe levate appena fa un po’ male.[6]

Se la si libera dall’aura di culto e dal mito che anche a causa della sua tragica morte ha finito per avvolgerla, la si scopre nella sua estrema e oscura verità. Per quanto il materiale dei Diari sia ricco e riferibile a periodi diversi della vita della Plath (costellata da momenti “migliori” e “peggiori”), vi si possono delineare alcuni motivi ricorrenti: la ricerca d’identità, il dualismo e la contraddizione, la riflessione letteraria, l’ira e la follia creativa, la rara e acutissima sensibilità emotiva. Sono soltanto alcuni degli aspetti che possono tracciare la figura controversa di questa versatile scrittrice.

Si legge spesso in lei il profondo dissidio donna-poetessa, moglie-madre, desiderio di diventare icona e necessità di immergersi nella domesticità, con volontà di viverla e insieme paura di venirne sopraffatta.

Cominciavo a chiedermi se non stavo diventando troppo felicemente, pesantemente pratica: invece di studiare Locke, per esempio, o di scrivere, mi metto a fare una torta di mele, […] Troverai rifugio nella vita domestica e soffocherai cadendo a testa in giù nella terrina con l’impasto per i biscotti.[7]

Ma devo rientrare nel mondo della mia mente creativa: sennò, nel mondo delle torte e dello stinco di bue, muoio. La grossa cuoca vampira succhia nutrimento e io divento sempre più grassa di materia corrotta, materia senza mente. Devo essere agile e snella e scrivere e costruire mondi paralleli a questo per viverci.[8]

È come se Plath fosse invasa dal demone della perfezione che le impediva di incarnare più ruoli alla volta rendendole impossibile e oltremodo faticoso riuscire ad essere qualunque cosa insieme che non incarni il suo ossessivo ideale di perfezione.

La vita matrimoniale è ricca di contraddizioni ma sempre animata dalla forte passione e dall’imponente amore che contraddistingue Sylvia Plath, un amore che avvolge e sconvolge, soffoca e libera, protegge e tradisce

Ed eccomi qua: la signora Hughes. Moglie di un poeta pubblicato […]. Tutte le mie belle teorie contro il matrimonio con uno scrittore cadono con lui: i no che riceve accrescono di più del doppio il mio dispiacere e i sì mi rallegrano più di quelli che ricevo io – è come se lui fosse la perfetta controparte maschile del mio io: ci offriamo a vicenda un’estensione della vita in cui crediamo […]. Sembriamo perfetti.[9]

Non esistono barriere tra di noi: è come se non avessimo, ma parlo soprattutto per me, neanche un centimetro di pelle a separarci, e continuiamo a sbatterci addosso e a sbucciarci. Quando Ted sta via per un po’, sono felice. Posso costruire la mia vita interiore, i miei pensieri, senza il suo insistente «A che cosa stai pensando? E adesso che fai?» che mi fa smettere, all’istante e controvoglia, di pensare e agire. Siamo sorprendentemente compatibili. Ma io devo essere me stessa. Creare me stessa e non lasciare che sia lui a crearmi.[10]

Quando ami è come se avessi un contratto a termine. Approvi per atti isolati. E l’approvazione è a breve scadenza.[11]

L’amore per Ted Hughes è forte e totalizzante, alla maniera dell’unico sentimento di cui Plath è capace, ovvero quello devastante che anela alla perfezione e all’unione assoluta di mente e corpo e che si rivela, nella dedizione speciale e ossessiva che lei vi dedica, impossibile. Profonde sono poi anche qui le contraddizioni insite in ogni aspetto della sua vita, il tenero bisogno di comprensione e protezione e la noia e la frustrazione per la vita di tutti i giorni di cui troppo spesso Plath (costantemente in bilico tra i due mondi del mito e della realtà) è vittima.

Mi sento tra due mondi […] «uno nato e uno incapace di nascere»[12]

Interessanti sono poi a mio parere le frequenti metafore animali e i racconti di sogni funesti. Hughes per esempio è spesso pantera nera sinuosa che avvolge (metafora interessante se si riflette sulla scelta di un animale tendenzialmente “femminile”), altrove riferimenti ai gatti e a varie razze di uccelli.

Non mancano nell’opera riflessioni sulla propria opera e sull’opera altrui, come accade per esempio per Virginia Woolf, riferimento di stile (a cui la Plath rivolge in ogni caso le sue critiche) e compagna di tragico destino.

Ieri notte: finito Le onde, inquietante; quasi irritata dal sole, le onde, gli uccelli senza fine e dalla strana discontinuità descrittiva – una frase pesante, goffa, brutta, dopo una fluida, bella e scorrevole. Ma poi l’eleganza da brivido delle ultime 50 pagine. Il riassunto di Bernard, un saggio sulla vita, sul problema della stasi di un essere cui non può accadere nulla, che non sta più lì a creare e creare per contrastare il declino.[13]

Tra le pagine dei Diari si legge infine un forte attaccamento alla vita, l’estrema volontà di immergersi nella vita e diventare un tutt’uno con essa, l’ultima intensa contraddizione che Sylvia Plath ci ha lasciato e quella dalla quale si potrebbe a mio parere ripartire per future analisi e viaggi nei luoghi della mente di questa interessante scrittrice.

Ora questa stanza con le pareti rosa di rose. Anche questo passerà, gettando i semi per giorni migliori. Li ho in me, questi semi di vita.[14]

La vita comincia a darsi un senso – un pezzetto alla volta – la metterò insieme, con calma.[15]

Una personalità imponente, controversa, vitale, che riesce a farsi «magnete» ed «emblema» letterario. Sylvia Plath ci lascia troppi punti irrisolti, fili da disbrogliare ed esperienze di lettura che possono ancora sorprendere.

[1] Sylvia Plath, Diari, Adelphi Edizioni, Milano, 2014, p. 62.

[2] Ivi, pp.91-92.

[3] Ivi, p. 115.

[4] Ivi, p. 208.

[5] Ivi, p. 214.

[6] Ivi, pp. 215-216.

[7] Ivi, pp. 187-188.

[8] Ivi, p. 193.

[9] Ivi, pp. 189-190.

[10] Ivi, p. 296.

[11] Ivi, p. 335.

[12] Ivi, p. 273.

[13] Ivi, p. 202.

[14] Ivi, p. 224.

[15] Ivi, p. 314.

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