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Speranza è condividere ancora: riscatto e comprensione in Tutto è possibile di Elizabeth Strout 

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Ad Amgash, in Illinois, il tempo scorre lentamente. È ciò che accade in tutte le piccole comunità del mondo, dove tutti conoscono tutti e la vita scorre sempre uguale, inesorabile.

Ad Amgash, in Illinois, si può solo e sempre soffrire, schiacciati da quel destino di povertà e miseria che si staglia sulla vita dei suoi abitanti come una condanna senza fine.

Ma è proprio ad Amgash (e in tutte le cittadine provinciali del mondo) che ci si può ancora sorprendere, si può ancora scegliere la vita e urlare “io sono qui e ho il diritto di starci”.  Il diritto a una vita che, anche se brutalizzata, può con tutte le sue forze aggrapparsi ad una speranza. E la speranza non è altro che nel conforto. È questa la grande lezione di Tutto è possibile di Elizabeth Strout, titolo parlante che fa da seguito al precedente Mi chiamo Lucy Barton di cui riprende atmosfere, personaggi e luoghi.

Senza dubbio la scrittura di Strout colpisce nel segno, con quell’essenzialità che riesce talvolta ad essere brutale. È una scrittura semplice, lineare ma allo stesso tempo intensa e fortemente “psicologica”. Riproduce a suo modo quello che per Verga è stato definito il punto di vista del paese e della comunità. È probabile  infatti, che anche la Strout avesse voluto ricreare il suo cronotopo, il suo ciclo dei vinti. Se Verga usava il narratore popolare per dare voce al punto di vista dei suoi personaggi piuttosto che al proprio, Elizabeth Strout sembra riprendere la stessa tecnica per dare voce ai microdrammi delle sue creature, attraverso un’architettura scrittoria ben orchestrata che unisce storie e punti di vista differenti (secondo la struttura della raccolta di racconti già utilizzata in altri lavori, come Olive Kitteridge) che diventano parte di un unico macrodramma, della storia collettiva di un’umanità vinta in cui ognuno può riconoscersi.

Ma a differenza dello scrittore siciliano, i vinti di Elizabeth Strout non sono condannati all’immobilismo e alla rinuncia. Per quanto la vita li abbia messi a dura prova infliggendo ferite e colpi che restano come cicatrici, attorno a loro non c’è l’irrimediabile negatività della sconfitta che li travolge o la malignità della sofferenza che porta alla brutalità. Se di sconfitta si parla, è quella degli intenti e della fortuna, ma mai quella dei sentimenti.

Per raccontare i sentimenti Verga utilizzava l’artificio del non-detto in quanto indicibile e si serviva di allusioni e immagini per esprimere il silenzio dei desideri e delle emozioni che, per i suoi vinti, non avevano il diritto alla parola.

In Tutto è possibile non solo anche nella sofferenza e nella miseria è ancora possibile la gentilezza e il conforto, ma lo stesso artificio del non-detto viene utilizzato per esprimere quella comprensione e solidarietà dell’anima che per l’autrice e i suoi personaggi, essendo ancora possibile, può ancora avere voce. L’umanità descritta da Strout è ancora capace di bontà e dolcezza, di ascolto e compassione. Ecco perché condividere la vita con qualcuno può salvare

Capiva che tutti di norma sono soprattutto interessati a se stessi. A parte Sibby, che si interessava a lei, e lei che si interessava moltissimo a lui. Era quella la sola guaina capace di proteggerti dal mondo; amare un’altra persona di cui si condivide la vita.[1]

e il silenzio essere “condiviso”

Charlie era scettico. – Oh, no. Siamo sempre soli.

Per un po’ restarono seduti in un silenzio condiviso, sotto i raggi del sole. Poi Patty disse: – Non siamo proprio sempre soli.[2]

 Tutto è possibile nel bene e nel male, i rapporti di coppia, l’amore tra madre e figlia, il perdono, il riscatto, la comprensione familiare, l’affetto tra fratelli,

-Vicky, sai che in fondo non siamo venuti tanto male? Lei lo guardò, sbarrando gli occhi. – Sì, come no?- disse. Poi aggiunse: – Beh, non ce ne andiamo in giro ad ammazzare la gente, se è questo che intendi -, e scoppiò in una risata breve che sembrava arrivarle dal fondo dell’anima.[3]

la vergogna, di chi ne ha fatto il «concime» della propria esistenza e di chi invece ce l’ha fatta, perché anche farcela ad Amgash, ha il suo prezzo.

Perfino il dolore, anche quando tutto è perduto, si attende come una speranza, la speranza di sentirsi ancora vivi nel conforto ricevuto come un dono in una camera di un B&B

A star male non si fa mai l’abitudine, checché ne dica la gente. Ora però, per la prima volta, si rese conto – possibile fosse davvero la prima volta che se ne rendeva conto? – che esiste qualcosa di assai più tremendo, e cioè quando uno non riesce più a stare male. […] E così Charlie si tirò un po’ più su e si concentrò intensamente sul televisore. Attese, e la speranza era come un bulbo di croco nel petto. Attese sperando, praticamente pregò. Oh. Mio buon Gesù, fa’ che arrivi. Ti prego, mio Dio, ti scongiuro. Puoi farlo arrivare, per carità?[4]

Il confortare e l’essere confortati, l’ascoltare e l’essere ascoltati sono i meccanismi che innescano il motore di Tutto è possibile. Di tutte le storie, quella di Lucy Barton è il filo rosso che lega tutte le esistenze. Lucy è la prima che ce l’ha fatta, andando via anni fa alla volta di New York, dove è diventata un’apprezzata scrittrice. Di quella miseria, di quella sofferenza, di quella vergogna ne ha fatto un libro, storia personale eppure collettiva in cui ognuno dei concittadini può riconoscersi e sentirsi compreso e in cui il riscatto di uno può diventare quello di molti.

Non mancano poi, in una scrittura asciutta e lineare come quella di Strout momenti di poesia e liricità in cui l’autrice riesce a creare nessi indissolubili tra persone e paesaggi, quasi che essi vengano addirittura a coincidere

Hanston era a una ventina di miglia e il sole picchiava ancora quando Patty costeggiò in macchina i campi con le piantine di mais, quelli di terra marrone e anche uno che stavano dissodando proprio mentre lei passava. […] quegli immensi mulini a vento bianchi piazzati sul territorio quasi dieci anni prima. Patty era da sempre affascinata dai loro lunghissimi bracci bianchi che roteavano tutti alla stessa velocità, ma non in sincronia. […] ecco, adesso se li era lasciati indietro e, di nuovo, c’erano solo i campi con le pianticelle di mais e di soia verdissima.[5]

Tutto è possibile è un libro fortemente realistico e crudo ma positivo, tenero e profondo nella sua lezione di comprensione, solidarietà, ascolto. Per nulla pessimistico ma anzi leopardiano per certi versi, se si pensa alla solidarietà e al sostegno tra uomini che pur soffrono come unica soluzione alla lotta contro la Natura matrigna o in generale, al male del mondo e della vita. È semplice eppure commovente la sua lezione di speranza, di riscatto dal fango, di piccole sorprese quotidiane, di piccole cose che accadono anche quando tutto è perduto, come doni o miracoli, perché davvero forse, tutto, ma proprio tutto, è possibile.

 

[1] E. Strout, Tutto è possibile, Einaudi, Torino, 2017, p. 44.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 144.

[4] Ivi, p. 92.

[5] Ivi, pp.31-32.

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