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Detachment: la scuola del “distacco” nel film di Tony Kaye

Detachment-Il distacco
Sami Gayle e Adrien Brody in una scena del fim

Il distacco è l’arma con cui il professor Barthes entra ogni giorno in classe per fare i conti con un’altra esperienza da supplente di letteratura. È l’arma con cui vive la solitaria quotidianità della sua vita e i drammi di un passato che ha lasciato cicatrici che fanno ancora male. È l’arma con cui avvolge e protegge l’equilibrio tranquillizante di una vita vuota e priva di coinvolgimento affettivo.

Ma quando fa i conti con la realtà degradante di adolescenti privi di speranza, fiducia in se stessi, ambizioni, non c’è poeta che possa aiutare, consolare o sostenere con le sue amate parole. Non c’è arma che possa proteggere dall’illusione di poter cambiare le cose, salvare chi non vuole essere salvato, fallire.

Detachment (Tony Kaye, 2011), traccia il quadro critico di un sistema scolastico ormai degenerato, disinteressato, brutalizzato, rassegnato, una vera e propria giungla di intenti assolutamente agli antipodi con quanto la scuola si proponeva di essere nel passato, un luogo di incontro e confronto in cui la parola “educare” (dal lat. educare, intens. di educĕre «trarre fuori, allevare», comp. di e- e ducĕre «trarre, condurre») era ancora all’altezza della sua etimologia.

Ciò che emerge nel film non è soltanto la frustrazione e il caos di adolescenti allo sbando, fragili nelle loro aggressività e nel bisogno di essere “condotti”, capiti, ma, in una sorta di intervista doppia, ci sono anche loro, l’altra faccia della medaglia, gli insegnanti. La regia di Tony Kaye ne racconta le altrettante debolezze, il senso di responsabilità, le altrettante frustrazioni, la stanchezza, la consapevolezza del fallimento, ma anche la forza di ricominciare, il conforto, ancora possibile, tra colleghi, l’amara ironia.

È vero Detachment non spicca per originalità, anzi, tanti sono i luoghi comuni all’interno del film e forse non spicca neanche per grandi slanci emotivi e situazioni di impatto. Gioca abilmente con inquadrature ad effetto e un linguaggio ineccepibile ma poco realistico. Gli inserti poetici e l’ottima interpretazione di Adrien Brody (Henry Barthes) contribuiscono a dare una certa liricitá al racconto e a creare tensione emotiva.
Il suo personaggio si dimena tra un “Stiamo fallendo, stiamo fallendo. Stiamo fallendo nel senso che abbiamo deluso tutti quanti, tutti, incluso noi stessi” e un “Ho provato a cambiare qualcosa. Ci ho provato. Onestamente. Questa è la fregatura.”

Henry Barthes incarna lo stereotipo del protagonista dal passato tormentato che si propone di affrontare la vita con distacco ma immancabilmente si lascia coinvolgere mostrando, alla fine, le sue debolezze. Nulla di originale, ma Brody, a mio parere, interpreta il ruolo  con coerenza, e il messaggio arriva se non forte, sicuramente chiaro.

Nel complesso Detachment è un film sulla difficoltà (e responsabilità) di essere insegnante ieri e oggi, sul disagio giovanile, sul declino del sistema scolastico. Non spicca per originalità ma lancia delicatamente il suo messaggio (che di fatto arriva), non urla verità ma “silenziosamente” le racconta.

Nulla di nuovo all’orizzonte, è vero. Ma chi può dire, oggi, quale sia il modo giusto per raccontare tutto questo?

 

Immagine da http://www.wikipedia.org

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