
Che cos’è la normalità?
Se lo sarà forse chiesta Murata Sayaka, promettente scrittrice giapponese premio Akutagawa e se lo chiede la sua protagonista, la trentaseienne Keiko, la quale, per sfuggire ad un destino di esclusione e solitudine, si rifugia nell’accogliente conformismo, nelle braccia della società benpensante, nelle aspettative di famiglia e amici, rappresentati dal lavoro di commessa part time in un konbini. Perché Keiko non è una donna come le altre, non è stata una ragazza come le altre, né tanto meno una bambina come le altre.
La sua naturale vocazione ad una logicità brutale e disarmante, ad un modo di vedere le cose tutto suo, ad una sensibilità cruda (e per questo fuori dal comune) l’hanno marchiata dell’appellativo “strana”. E l’onta della stranezza si sa, è una macchia difficile da lavare. Lo sa bene Keiko, consapevole di una stranezza che allo stesso tempo vive con svagata delicatezza. Come delicata è la scrittura di Murata Sayaka, semplice e lineare ma anche per questo arguta, ironica, spiritosa. Anzi, è proprio forse la sua linearità a creare un ironico cortocircuito tra ciò che è normale (cioè riconosciuto e accettato dalla società) e ciò che non lo è (e che dunque deve essere estromesso). Si noti con quale sottile sarcasmo viene sviluppata la conversazione di Keiko con la cognata di Shiraha (gretto compagno di stranezza e solitudine) sulla improponibilità sociale per una commessa part time e un disoccupato di mettere su famiglia
«Sta scherzando? Una commessa e un disoccupato: come pensate di cavarvela? Non fate sciocchezze, mettere al mondo un bambino non è una cosa da nulla. Vuole sapere qual è la cosa migliore per l’umanità? Glielo dico subito: non diffondere in nessun modo il vostro DNA!»
«Ah, davvero?»
«Certo! Teneteveli stretti i vostri geni marci e perversi, fino alla morte! E poi portateveli con voi in paradiso, se mai ci andrete, senza lasciarne traccia su questa terra!»
[…] Il suo ragionamento non fa una piega. Ne ha di cervello questa donna.[1]
Keiko non reputa assolutamente strano che un’estranea avanzi offese e illazioni sulla sua vita, ma la società reputa strano che una donna si accontenti di fare la commessa e che addirittura, in questa sua condizione, progetti di diventare madre.
È questa l’idea che ironicamente traspare dalle pagine de La ragazza del convenience store: il “normale” può arrogarsi il diritto di giudicare lo “strano”, di estrometterlo, escluderlo. “Feccia umana”, “rifiuto umano” sono gli appellativi che Shiraha usa spesso per descrivere cosa lui e Keiko sono per la società in cui vivono.
La consapevolezza della propria inevitabile esclusione dal mondo, («In fondo che cos’è il mondo? Mi è sempre parso un concetto troppo astratto e inafferrabile.»[2]) porta Keiko a scegliere di adeguarsi, indossando i panni della commessa part time di un konbini, «l’unica maschera che è in grado di indossare».[3]
Ma facciamo un passo indietro, ritroviamo Keiko bambina, poi adolescente quando ha ben chiaro di non essere una ragazza come le altre e sceglie di affrontare il mondo evitandolo, nascondendosi in un difensivo silenzio
All’epoca ero convinta che per riuscire nella vita non ci fosse metodo migliore che starsene in disparte e in silenzio.
A scuola ero una ragazzina solitaria, non avevo neanche l’ombra di un’amica, ma per fortuna non sono mai stata vittima di bullismo. Me ne stavo sulle mie senza dare sfogo alla mia stravaganza ed evitando di condividere le mie idee con anima viva. […] Alla fine del liceo, al momento dell’ingresso all’università, la mia strategia non era cambiata neanche di una virgola. Passavo la maggior parte del mio tempo da sola e scambiavo due parole con gli altri molto di rado, solo se strettamente necessario. [4]
Fino a quando trova quello che è (o che crede essere) il suo posto nel mondo, lo Smilemart, il nuovo convenience aperto 24/7
In quell’istante, per la prima volta nella vita, assaporai la sensazione di aver trovato il mio posto nel mondo. Sono nata, finalmente!, pensai entusiasta.[5]
Con i suoi orari, le sue regole prestabilite, la vita che nonostante il susseguirsi degli anni, degli attori, delle stagioni, scorre sempre uguale, il konbini diventa per Keiko una perfetta scatola in cui rifugiarsi, un tranquillizzante contenitore in cui può sentirsi una normale «componente degli ingranaggi della società».
Ma il konbini finisce per essere molto più che una salvezza, un rifugio dal pericolo di essere rifiutata dal mondo, diventa la ragione di ogni cosa, la casa. Per Keiko il konbini è tutto.
E tuttavia non basta. Il mondo è sempre in agguato con la sua dose di aspettative e pretese, ti vuole pronto, energico, sempre all’altezza della situazione, seguace della politica del “fare”. Fare qualcosa (o piuttosto fingerla di farla), per non dirsi che non si fa niente, raccontarsi la vita solo per il gusto di avere qualcosa da raccontare.
L’incontro con Shiraha scardina gli equilibri e insieme li rafforza. Infimo, gretto, stravagante, anche Shihara, come Keiko, è un emarginato, un escluso e, a suo modo, un numero primo. Pur nei suoi deliranti e contorti ragionamenti ha ben chiaro cosa la società si aspetta da lui e a differenza di Keiko, ha tutta l’intenzione di rispondere a tali aspettative, in un disperato tentativo di “cedere” alla normalità
«In poche parole ti spingeresti a tanto solo per evitare che gli altri ti diano fastidio e parlino male di te? Sei pronto a rinunciare alla tua diversità e al tuo stile di vita per questo?»
Quest’uomo è davvero disposto a cedere, ad accettare l’ordine prestabilito? Che strano. [6]
Ormai “soci in affari” decisi ad integrarsi in un mondo che altrimenti li condannerebbe all’esclusione, i due iniziano quella che assume i contorni di una quasi esilarante lotta, una battaglia, un sacrificio il cui prezzo da pagare è la rinuncia alla diversità
«[…] Tocca affrontare il mondo di petto e sacrificarsi, perché solo cosi è possibile conquistare una libertà almeno parziale.»
[…]Cerco di cancellare dalla mia vita tutto ciò per cui gli altri mi ritengono strana. A poco a poco mi sforzo di diventare “normale”. È un modo per curarmi e sperare di guarire? Sì, può darsi.[7]
È quando Keiko lascerà il lavoro da commessa nel suo amato konbini (considerato dalla società degradante per una trentaseienne oltretutto non sposata) che la “metamorfosi” potrà dirsi completa
La metamorfosi è compiuta. Agli occhi degli altri ho assunto le sembianze di una persona normale.[8]
La ragazza del convenience store è indubbiamente un libro sulle difficoltà di trovare un posto nel mondo, scritto con abilità e consapevolezza scrittoria, un sottile e delicato gusto per l’ironia e il sarcasmo che fanno di Murata Sayaka una sapiente scrittrice. È stata paragonata alla Banana Yoshimoto di Kitchen con cui a mio parere condivide quella che altrove ho definito “profonda normalità”[9], ovvero la capacità di raccontare situazioni dolorose e complesse con una leggerezza comunque dotata di forte carica emotiva.
È un caratteristico spaccato di cultura orientale, tradizione, mentalità e sorprende quanto in fondo, ad un lettore occidentale, la differenza non appaia evidente. Tutto il mondo è paese come si suol dire e il delizioso microcosmo giapponese creato da Murata Sayaka è quanto mai attuale e vero.
Ma La ragazza del convenience store è anche un libro sulla bellezza della diversità, sulla libertà, sulla preziosa ricchezza di ciò che è straordinario (ovvero fuori dall’ordinario). E per questo fa paura.
A Keiko non resta che scegliere. E, che sia da un konbini, o da qualsiasi altro angolo di mondo, ripartire. Ancora una volta.
[1] M.Sayaka, La ragazza del convenience store, Edizioni e/o, Roma, 2018, p. 151.
[2] Ivi, p. 91.
[3] Ivi, p. 108.
[4] Ivi, pp. 20-22.
[5] Ivi, p.28.
[6] Ivi, p.93.
[7] Ivi, p. 98.
[8] Ivi, p. 144.
[9] Si veda l’articolo Kitchen: la “normalità profonda” di Banana Yoshimoto tra manga e letteratura, pubblicato su La Pazienza dell’onda il 10 maggio 2017.